La Valle D’Agrò e “a carni o furnu”


Da circa vent’anni frequento la Valle d’Agrò, l’ho eletta  luogo dell’anima e Savoca è diventata la mia seconda città, adesso che ci vivo tre mesi l’anno. Non ho mai capito il motivo che mi spingeva da quelle parti, ma avvertivo una sensazione di familiarità, anche quando andavo a trovare le mummie nella cripta. Poi, avere scoperto quella di un notaio, un certo Marco Fleres Trischitta, mi ha convinto che un legame doveva pur esserci. Sarà che il mio bisnonno paterno, Don Saro Trischitta,  nato lì, mi aveva trasmesso i geni di questa attrazione fatale?

 

Il mio avo si era trasferito negli anni ’20 a Catania, e qui, assieme alla moglie, Caterina Briguglio da Gualtieri Sicaminò, aveva aperto una trattoria nel cuore di San Berillo vecchio, in via Celeste. La trattoria “Donna Ina” era famosa per la novità  dello stocco alla messinese e perché era diventata ritrovo di artisti ed intellettuali catanesi. Ecco, si trattava di un legame artistico e culinario, quello che mi spingeva ad esplorare i due fronti della valle: Forza D’Agrò, Limina, Roccafiorita e Antillo da una parte, e Savoca e Casalvecchio dall’altra, il “mio” versante ormai. Savoca con il Borgo San Rocco dell’illuminato Nunzio Moschella, con il mitico “Bar Vitelli” di coppoliana memoria. Francis Ford ci aveva girato “Il Padrino” parte prima, con un giovane Al Pacino che non si era innamorato soltanto della moglie Apollonia, ma anche delle granite al limone della signora Maria, che raccontava di essere diventata la sua confidente siciliana. Da quel giorno il bar si sarebbe chiamato “Vitelli” con la complicità di un catanese doc come Saro Urzì, icona del cinema di Germi. Poi scoprii in mezzo alla valle, nel territorio di Casalvecchio, una costruzione meravigliosa, la chiesa di San Pietro e Paolo, pregevole esempio di architettura araba-bizantina-normanna. Ero entrato in simbiosi con quei luoghi, e non perché Sciascia aveva scritto: “…il paesaggio ad ogni svolta è diverso, per cui si dice che Savoca ha sette facce…”. M’inerpicavo per le stradine, poi scendevo al mare, quello di Santa Teresa di Riva e mi assaliva la fame. Così la curiosità si concentrava su quelle insegne affisse alle vetrine delle macellerie: “Domenica carne al forno”. Bisognava assaggiare quella pietanza, che io immaginavo simile a quella preparata da mia madre, con cipolla, pomodoro e patate.  Mi venne consegnata avvolta in una tipica carta gialla, sprigionava un profumo inconfondibile ma non era quello che mi aspettavo. Il sapore  ricordava fragranze antiche, odore di legna, aromi di campi, e venni a sapere che la carne di castrato stava a rosolare per cinque ore nei forni a pietra. Un tradizione di viddani di campagna che era giunta anche nella costa jonica, regno dei pescatori “sciabbagoti”. Ma nessuno sapeva darmi notizie su queste carni cotte con aglio e rosmarino. Sembrava una proposta culinaria privilegiata più che una semplice proposta commerciale. Qualcuno doveva darmi una risposta, ma chi?  L’ amico Domenico Cacopardo, scrittore e inventore del fortunato personaggio letterario, il sostituto procuratore Italo Agrò. Lui è originario di Letojanni e un giorno durante un’intervista glielo chiesi. E la carne al forno da dove viene? Tre secoli di storia, che ci riportano al reato di abigeato (furto di bestiame) praticato dai viddani a danno dei pastori di pecore e capre. La fame li spingeva con avidità a scavare delle fosse nel terreno, dove cucinare con legna ardente, e nepitella e finocchio selvatico come aromi, le carni rubate. In questa maniera il fumo non poteva sprigionarsi all’esterno e così, difficilmente, potevano essere scoperti. La mia “fame moderna” mi aveva fatto scoprire quella atavica,dei viddani della Valle D’Agrò.

 

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