“La nave delle spose”: l’illusione di una vita “altra”


Il futuro è una foto seppiata e una lettera di matrimonio per procura. Il futuro è l’America, o il suo miraggio, che sul palco del Verga di Catania prende forma con “La nave delle spose”, la novità assoluta, prodotto dallo Stabile etneo, scritta a quattro mani da Lucia Sardo ed Elvira Fusto. Anzi, il futuro sono quella nave e l’oceano che accoglie otto donne, nell’illusione di una vita “altra” in una terra di meraviglie.

 

Articolato lungo tre momenti – la partenza, il viaggio, il naufragio – l’atto unico aggruma le voci di otto donne in un contraltare di toni e di motivi, di linguaggi e di suoni che non sempre appaiono sorretti da una vera e propria vis narrativa, incarnata sulla scena dalla stessa Lucia Sardo: e quando le musiche tentano di dare loro ulteriore voce, sembrano invece spegnerle quasi, invadendo la scena.

Certo, affiora la potenza di alcune vicende e su quelle il lavoro drammaturgico avrebbe dovuto accelerare: l’orfana, la prostituta, la reietta, la muta, la fuggitiva, la suicida, la viaggiatrice, la sposa bambina. Il “cunto” di quelle vite è però fragile ed il rapporto tra storia individuale (emancipazione e riscatto) e storia collettiva (la “grande depressione”, il mito americano) si affievolisce; il loro contrappunto, seppure interessante nel suo intrecciarsi, si sbilancia verso una frammentazione che non giova all’unità dello spettacolo.

Questo tessuto ibrido, se affonda a piene mani all’interno di una tradizione corposissima dall’altra risulta una evidente evocazione – almeno visivamente – dell’immaginario di “Nuovomondo” di Emanuele Crialese che il tocco della regia di Giuseppe Dipasquale rende ancora più fascinoso e variegato. L’impianto scenico freddo ed essenziale diventa infatti lo spazio – ora molo, ora piazza, ora stiva, poi mare crudele – nel quale l’epos del viaggio, delle sua protagoniste e delle loro storie prende corpo e spessore: luogo indifferenziato da cui tutto è possibile e nel quale sfolgorano i costumi di Marella Ferrera; in quei costumi c’è tutta la Sicilia: l’isola del tombolo e del pizzo, dei corredi pazienti chiusi nei bauli in attesa delle nozze, i “robbi” sciatti del lavoro quotidiano, dunque anche la Sicilia proletaria e rurale di ogni tempo. Ad offrire una ulteriore suggestione sono anche i movimenti coreografici di Donatella Capraro che cullano lo spettacolo come se fossero l’eco del rollio della traversata stessa e della nave che, dunque, accoglie e riunisce tutte le protagoniste (il cast è assolutamente all’altezza), nutre i loro desideri e ne prefigura i destini attraverso il capitano-faccendiere (Miko Magistro), sorta di burbero e carontesco burattinaio, un mediterraneo Acab in bilico tra disprezzo e ostinazione, tra una virilità straripante e una larvata tenerezza.

Ma quella nave è soprattutto l’arca disperata che le trascinerà nelle profondità – nella tempesta finale tanto spettacolare quanto tragica – insieme alla speranza del loro riscatto e al sogno di una vita diversa. L’America, per queste donne, è solo un vestito da sposa negli abissi della storia.

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