“Dal mio trono di polvere”: Scandurra racconta Bufalino


Gesualdo Bufalino

Gesualdo BufalinoQuel 14 giugno del ’96 – non posso scordarlo – stavo andando a un matrimonio; la radio diede la notizia della morte improvvisa, per incidente automobilistico, di Gesualdo Bufalino. Per fortuna che ai matrimoni si piange, nessuno ti chiede perché. Io piangevo per la morte violenta di uno degli scrittori che amavo di più, per gli anni che gli erano stati strappati in un breve tratto di strada – da Comiso a Vittoria non sono più di otto chilometri – per le opere che non avrebbe più scritto. Piangevo come se lo avessi conosciuto personalmente. Avevo appena finito di leggere Qui pro quo, il giallo che lui disse di aver scritto per gioco; coltivavo nella memoria la sua abilità pirotecnica nell’uso della lingua e delle immagini, l’intensità dolorosa e i baratri esistenziali del suo romanzo d’esordio Diceria dell’untore. Se è vero, come ha affermato David Foster Wallace, che la letteratura non può essere un anestetico né un conforto, gli scritti di Bufalino ne sono una prova. L’autore non risparmia niente a nessuno, neppure a se stesso.

Quasi sedici anni dopo, ho l’occasione di conoscere Angelo Scandurra, il “poeta di Valverde”, anche lui autore di opere di grande impatto per la letteratura italiana, sia di narrativa che di poesia (Trigonometria di ragni, Scheiwiller, 1993; Criteri di fuga Passigli, Firenze 1998; Appunti per un colloquio forzato, La Vita Felice Edizioni, 2000; Il bersaglio e il silenzio Passigli, 2003; Quadreria dei poeti passanti, Bompiani, 2009 solo per citarne alcune); scopro così l’annosa amicizia che ha legato un giovane Scandurra al già anziano “Don Gesualdo” (non a caso Bufalino ha scritto la prefazione agli Appunti per un colloquio forzato). Non posso esimermi dal sottoporre Scandurra a un fuoco di fila di domande:

 

 

Come ha conosciuto Gesualdo Bufalino?

“Lo incontrai a un convegno, nel giugno del 1981. La Sellerio aveva appena pubblicato Diceria dell’untore ma non era ancora scoppiato il caso letterario ed editoriale che poi portò Bufalino a vincere il Campiello. A me il romanzo era piaciuto molto e fui felice di conoscerne l’autore”.

Come si è evoluto, negli anni, il vostro rapporto?

“Io ho creato una realtà culturale, Il Girasole Edizioni, che non ha scopo di lucro. Pubblico volumi preziosi e numerati con la carta cotonata della Cartiera di Sicilia che ha il suo stabilimento vicino Valverde. Nel 1991 “il professore” volle pubblicare con Il Girasole Il Guerrin Meschino, in 399 esemplari, come strenna natalizia per gli amici. Si tratta di un’opera che ben pochi conoscono, un’epopea cavalleresca rivissuta, da lui stesso presentata con queste parole: “giocare a riproporre, per baleni, un’età micidiale ed estatica, come potrebbe risognarla un cantastorie erudito in un dormiveglia d’estate”. Poi nel 1994, ho dato alle stampe il suo Carteggio di gioventù con Angelo Romanò, a cura del professor Nunzio Zago. Una testimonianza importante del periodo giovanile, dal ’43 al ’50, dove già si colgono in embrione i futuri sviluppi di entrambi gli intellettuali. Ma il momento che ricordo con maggiore affetto e nostalgia è il 15 novembre del 1995. In quell’occasione, a Valverde, a Villa Cosentino, festeggiammo i 75 anni del professore. C’erano molti suoi allievi ed estimatori e lo accompagnava la signora Giovanna”.

Chi era Giovanna per Gesualdo?

“Giovanna era una professoressa, una collega, ma soprattutto l’amore di tutta una vita. I due non si sposarono se non in tarda età perché Bufalino aveva delle resistenze: viveva con la madre malata e si dedicava principalmente a lei. Tuttavia il matrimonio avvenne, in vecchiaia. Giovanna andò a vivere a Comiso con Gesualdo e la madre. Purtroppo, dopo solo un anno, venne colpita da un ictus. Bufalino, trovandosi nell’impossibilità di accudire entrambe le donne, accettò che Giovanna tornasse a Vittoria dai suoi familiari. Ogni giorno, dalle tre alle cinque, si faceva accompagnare per andarla a trovare. Lui non guidava e non amava spostarsi da Comiso. Quando vinse il Campiello e più tardi lo Strega, con Le menzogne della notte, non volle mai fermarsi più dello stretto necessario né a Venezia né a Roma. Stare lontano dal suo paese lo inquietava profondamente, quasi come se la sua sopravvivenza dipendesse dalla vicinanza a Comiso”.

La sua morte, dunque, è stata quasi una profezia che si realizza. Ma cos’altro è successo quel 15 novembre del ’95?

“Abbiamo dato alle stampe I languori e le furie, le sue poesie giovanili, in 500 esemplari. Si tratta di poesie scritte durante l’adolescenza, ma leggendole già si colgono alcune delle tematiche care al Bufalino maturo, per esempio l’intensità del suo rapporto con la morte”.

E adesso la domanda chiave: che uomo era Gesualdo Bufalino?

“Inizialmente appariva impenetrabile e chiuso. Poi, se si riusciva a superare la prima barriera, si scopriva un uomo straordinariamente gentile. Aveva un’enorme cultura ma non la usava mai per mettere in soggezione gli altri; era un eccellente affabulatore – parlava quasi come scriveva – amante del cinema e della musica, oltre che della filosofia e della letteratura. Era perfino spiritoso, anche se chiunque entrasse in contatto con lui non poteva non avvertire una costante malinconia di sottofondo. Per il resto era un uomo dalle abitudini regolari: alla vita mondana preferiva di gran lunga quella di paese. Ogni pomeriggio si recava al circolo per giocare agli scacchi – in cui era abilissimo – o a carte”.

Si sa che fu Sciascia ad accorgersi del suo eccezionale talento. Ma come avvenne?

“Nel ’78 vennero ritrovate in un casolare nobiliare una serie di foto scattate da un barone di Comiso. La Proloco del paese decise di fare una mostra e un libro, dal titolo Comiso ieri, e chiese al professore di scrivere l’introduzione. Sciascia la lesse e la trovò talmente ben scritta da contattare direttamente Bufalino per domandargli se non avesse qualche romanzo nel cassetto. Secondo lui, e poi anche secondo Elvira Sellerio, Bufalino nascondeva una lunga pratica di scrittura. Ci volle un po’ per convincere il riservato Gesualdo ad aprire il suo “cassetto segreto”, ma alla fine Sciascia e la Sellerio ebbero la meglio sulle sue ritrosie. Il resto è storia nota”.

Per finire, le chiedo un regalo per i lettori: una poesia giovanile di Bufalino…

Per fortuna Scandurra non si fa pregare. Apre il prezioso volume da lui stesso realizzato e ne sceglie una: Dal mio trono di polvere

 

Dal mio trono di polvere repente

ho visto il vento levarsi, una daga

di luce il cielo misteriosamente

fendere: ecco, e s’infuria la piaga

 

dei papaveri, vipere divagano

dai pozzi, ove arida si sente

crepitare la ghiaia se l’allaga

la marea del vespero demente.

 

Poi crolla il sole, rapido, e si sgretola

sulle paranze confitte nel greto,

o come un sangue insudicia le porte.

 

Più tardi dalle vigne lungo il mare

s’udrà il tamburo arabo cantare

la nenia lunga e sorda della morte.

( da I languori e le furie, Il Girasole Edizioni, 1995 )

 

 

 

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