I trapanesi riscoprono le proprie radici e lo fanno attraverso il cous cous. Un nuovo fervore scuote gli addetti ai lavori del settore enogastronomico della Sicilia occidentale, nel recuperare dalla viva voce dei pescatori e delle donne anziane, l’ origine, le peculiarità casalinghe, i segreti di questo piatto straordinario. Che ha sicure origini berbere e nord africane, è diffuso dal Marocco, all’ Andalusia in tutto il medio oriente sino alla Francia, ma che solo a Trapani e dintorni si è sposato al pesce. Perfino nelle case di Lampedusa, a Salemi o ad Agrigento si preparano diverse varietà di cous cous, ma accompagnate da verdure e spezie, dalle lumache, dal maiale o dai broccoli. Dieci chef trapanesi lo raccontano e ne declinano le sfumature, ma tutti sono concordi nel dire che alla base del piatto c’è la qualità della semola locale, della molitura e del modo sapiente di incocciarla e abbivirarla. L’ importante che sia semola mista di grano duro siciliano, di cui solo nel trapanese sopravvive la produzione tradizionale.
Tutti i segreti del cous cous trapanese, un vero spettacolo per gli occhi e per il palato, rivivono nel volume corredato da molte immagini a colori, corredato da un dvd che ne documenta la preparazione, edito da Trapani Welcome dall’ idea dell’ autore Paolo Salerno. Che ha anche ridato vita da circa un anno al Molino Excelsior , nell’ agro attorno a Valderice, una location perfetta per le lezioni di cucina che partiranno a metà giugno, insieme ad incontri culturali mirati alla conservazione delle tradizioni legate al cibo, alla terra ed al mare. Che di questa provincia sono il vero tesoro. Il mulino, restaurato dal comune e chiuso da tredici anni, è diventato un aggregatore di cultura gastronomica e di tradizioni locali grazie alla partecipazione delle donne, degli chef e dei turisti stranieri che animano corsi e workshop, mettendo le mani nella semola, sotto la guida dagli chef locali.
Trapani è città di mare e di antiche tradizioni gastronomiche, ma anche qui il senso del rituale del piatto trapanese è minacciato dall’ oblio o dalle contaminazioni industriali. Vedi l’ uso deleterio della semola precotta importata dalle multinazionali. L’ intento è quello di recuperare la memoria più segreta del piatto che da povero divenne il simbolo delle feste, quando con pazienza le donne incocciavano la sera o la domenica mattina, per almeno 5 ore la semola, un lento lavoro seguito dal rituale della cottura a vapore nella couscousiera e dell’abbivirata, la preparazione parallela della “ghiotta” la zuppa di pesce povero, di piccola taglia, gustosissimo e spesso oggi inutilizzato. Ritorna così l’ uso di accompagnarlo con piccoli pesci fritti o di calamari, e di speziarlo con aglio grosso, alloro e cannella a piacimento sin dalla cottura.
“ Abbiamo resuscitato il termine dialettale couscusu – spiega l’ autore- per identificare il piatto con le nostre radici più profonde, e per far capire che nel recupero della qualità e della sapienza locale sta il nostro futuro”. “ Un piatto che da solo ci spiega il senso della biodiversità della terra e del mar Mediterraneo- spiega lo chef Beppe Giuffrè. Oggi bisogna tornare alla filiera corta, ad un cibo legato al suo territorio di provenienza, un messaggio culturale che in questa provincia vede nell’ olio extravergine, nel vino, nel grano, nel pane, nel pesce e nei dolci, le eccellenze che fanno la nostra cultura alimentare”. Gli fanno eco i produttori trapanesi di grano, e molti altri ristoratori che per il libro hanno svelato e raccontato aneddoti: incocciare significa lavorare due parti di semola grossa ed una di semola fina, setacciata solo come i maestri locali sanno fare. Almeno un’ ora di incapizzata è d’obbligo, cioè il riposo della semola condita, chiusa da un telo per insaporire e riposare. Seguono i consigli sui vini da abbinare, ideale il Grillo o l’ Inzolia, ma vanno bene anche lo Zibibbo o il rosso Frappato.
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