Paura e superbia in scena con “Baccanti” di Euripide


La datazione della tragedia è incerta, riconducibile al periodo che va dal 405 al 403 a.C., ma l’uomo era già uguale a se stesso. Quasi l’uomo di oggi, potremmo dire, svelato in queste “Baccanti” di Euripide, in scena al Teatro Antico di Siracusa assieme al “Prometeo” di Eschilo” e agli “Uccelli” di Aristofane. Procura dolore Euripide già dalla prima scena, con un Dioniso sublime, interpretato da Maurizio Donadoni, che arriva a Tebe infuriato perché è stata messa in dubbio la sua natura divina. E già qui ad entrare in scena non è in realtà il dio greco ma la superbia umana, pronta a negare una qualunque entità superiore e soprannaturale, ciò che sarà il filo conduttore degli altri testi sacri dell’umanità. Euripide, come Shakespeare, come Alfieri, come Ibsen, sono classici perché classici sono i sentimenti lasciati scoperti nei loro lavori, capolavori; classici, eterni gli intrighi dell’umano animo da secoli perseguitato dal dubbio “chi siamo?”, “cosa siamo?”, “dove andiamo?”…

 

Ecco che allora Penteo, figlio di Agave, fiero condottiero della città, interpreta il ruolo dell’Uomo, in senso generale. Nel clima di festa eccitata delle baccanti, che ha invaso la città con la presenza del dio (che intanto si è tramutato in forma umana per ingannare i terrestri), solo il giovane soldato tiene alta la bandiera dello scetticismo, affondando più volte la spada nell’insulto a un dio che per lui non esiste. Massimo Nicolini è giovane attore con già buona presenza scenica e ha portato bene sulle spalle l’arroganza di chi non crede e che comunque è sicuro di ciò che è, fosse anche l’interprete dell’ateismo pagano di quei tempi.

Insomma, troppo per Dioniso, che gli lancia contro il suo esercito di donne eccitate, sensuali, sexy, divinamente (è il caso di dire!) interpretate dalla “Martha Graham Dance Company”, mentre volto e voce di Agave era Daniela Giovanetti, dell’indovino Tiresia Francesco Benedetto, del vecchio Cadmo Daniele Griggio, della Corifea Gaia Aprea. Tutti, tutti, tutti avvolti nell’ubriachezza della scandalosa religiosità dionisiaca, tutti attori consapevoli sul palco ma inconsapevoli interiormente, per copione, di partecipare alla vendetta terribile del dio. Così è segnato il destino di Penteo, che suscita giustamente il sentimento di solidarietà del pubblico, quasi anch’esso affascinato e combattuto tra la bravura di Donadoni-Dioniso e il coraggio interpretativo di Penteo-Nicolini, che però non si salverà.

Il giovane condottiero vuole vederci chiaro, capire perché le donne tebane sono fuggite sul monte Citerone, staccando dai loro capezzoli ancora sgorganti latte i loro neonati. Vuole capire dove si sono riparate, sotto il manto di quale mistero. Sarà lo stesso Dioniso a convincere Penteo a seguirlo, travestito da donna, per non farsi riconoscere. La trappola è presto svelata: le donne, quelle vere, ubriache ed eccitate, tra cui la stessa madre di Penteo, Agave, lo scambiano per un feroce leone e lo squartano tra schizzi di sangue. Solo quando terrà la testa mozzata del figlio tra le proprie braccia e in un faccia a faccia delirante con Cadmo, dove il pathos raggiunge un buon vertice interpretativo, Agave tornerà in sé, l’ubriacatura svanirà e il dio avrà avuto la sua vendetta.

Gli applausi, crediamo sinceri, del pubblico, valgono forse più di ogni altra dichiarazione. Certo parte di essi devono andare alla regia, firmata da Antonio Calenda, che in questo cartellone 2012 ha il merito di avere rispettato le intenzioni del testo, ma legando con doppio nodo le antiche credenze pagane con una paura ancora oggi viva e vitale dentro di noi. Sentimenti discoperti in scena, paure svelate ancora una volta, dopo secoli e secoli, in un contesto che rimanda alle nostre origini, quelle nobili, di uomini che già allora, tra il 405 e il 403 a.C. e ancora prima si chiedevano “chi siamo?”, “cosa siamo?”, “dove andiamo?”…

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