Amore mio, Eternamente tuo. Lettere d’amore che hanno fatto la storia


lettere d'amore

“C’è una lettera che non oso essere il primo a scrivere, ma che pure spero ogni giorno che mi scriverai. Una lettera solo per i miei occhi. Forse me la scriverai e placherà il mio desiderio. (…) Adorna il tuo corpo per me, carissima, sii bella e felice e amorosa e provocante, piena di ricordi, piena di desideri, quando ci vediamo. La gelosia non è ancora del tutto spenta. Il tuo amore per me dev’essere feroce e violento …”

Scriveva così James Joyce a Nora Barnacle il 22 agosto del 1909, e così con quella passione che alimenta il più nobile dei sentimenti hanno scritto, aldilà delle liriche, nell’intimità dell’epistola personale, uomini di cultura, filosofi e intellettuali di ogni tempo. Si conservano diverse testimonianze di questo tipo di testo così introspettivo che mostra la profondità delle anime, l’autenticità dei rapporti in un continuo svelarsi di personaggi e persone, scrittori e uomini, maschere e volti.

Eppure se per altri autori si avverte una distanza tra la scrittura dell’opera e quella delle lettere, in Kafka lo stile narrativo e lo stile epistolare sono quasi sovrapposti nell’evidente manifestazione di quell’angoscia che tormentava tanto il personaggio quanto l’uomo. Il 10 aprile del 1920, da Merano, a Milena Jesenskà Franz scriveva:

“… So il rapporto fra te e me (tu appartieni a me, anche se non dovessi vederti mai più), lo conosco in quanto non sta nel territorio confuso dell’angoscia, ma non conosco affatto il rapporto tuo verso di me, questo appartiene tutto all’angoscia. (…) Sono stanco, non so nulla e non vorrei che posare il viso nel tuo grembo, sentire la tua mano sul mio capo e rimanere così per tutte le eternità.”

Le lettere d'amore di Sibilla Aleramo e Dino Campana
Le lettere d’amore di Sibilla Aleramo e Dino Campana

Ed eccole le lettere d’amore, fogli scomposti, fogli accartocciati, fogli scarabocchiati, fogli pieni -seppur bianchi- di pensieri e parole, acquarelli nutriti di pianto, fiumi in piena che irrompono diretti dalla sorgente inarginabile del cuore, teca sacra del sentire, intimo naos del nostro tempio. Parole che corrono spingendosi, trascinate in un disordinato flusso di coscienza, discorso amoroso che Roland Barthes definiva “di un’estrema solitudine, forse parlato da migliaia d’individui, ma non sostenuto da nessuno …”, parole confuse che urlano come pioggia battente, parole d’incertezza, parole di paura, come si respira nella lettera di Sibilla Aleramo a Dino Campana, scritta il 6 agosto del 1916.

“I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il cielo. Non ho saputo che abbracciarti. Tu che m’avevi portata così lontano. Oh tu non hai bisogno di me! È vero che vuoi ch’io ritorni? Come una bambina di dieci anni. È vero che mi aspetti? Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto. Tacere insieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Ho paura di morire prima! Dino, Dino, ti amo! Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore del miracolo. Non so, ho paura. È vero che mi hai detto ‘amore’? Non hai bisogno di me. Eppure la gioia è così forte. Son tua. Sono felice, tremo per te ma di me son sicura. E poi non è vero, son sicura anche di te, vivremo, siamo belli. Dimmi. Io non posso più dormire, ma tu hai la mia sciarpa azzurra, ti aiuta a portare i tuoi sogni? Scrivimi!”

Ed ecco la scrittura come elicitazione del sentimento, tentativo vano di raccogliere il fiume in piena, di non disperdere l’amore purissimo che sgorga dal petto. E’ una soglia invalicabile Eros, è un demone divoratore, una sfida al senso di colpa, un anelito incontenibile verso l’eterno, è il vento saffico della passione, “che irrompe entro le querce e scioglie le membra e le agita, dolce, amaro, indomabile serpente”. E’ il catulliano ossimoro per antonomasia in un tormento fra odio e amore che non dà pace, o forse è solo la felicità di cui parlava Hesse.

Lettere d’amore, Italo Calvino-Elsa De Giorgi

“Voglio amarti scrivendo, prenderti scrivendo, non altro – leggiamo nelle parole di Italo Calvino all’attrice Elsa De Giorgi– è forse la paura di soffrire che prende il sopravvento? Cara, cara, mi conosci troppo, ma no, troppo poco, devo ancora farmi conoscere da te, devo ancora scoprirmi a te, stupirti, ho bisogno di farmi ammirare da te come io continuamente ti ammiro. Ho più che mai bisogno di stare fra le tue braccia. Gioia cara, vorrei una stagione in cui non ci fossi per me che tu e carta bianca e voglia di scrivere cose limpide e felici.”

Parole felici, tristi, potenti e sensuali, parole nutrite da sentimenti contrastanti; innumerevoli gradazioni in una tavolozza di colori, melodiose note di un pentagramma intimo. Nella meraviglia dell’esserci, nella vertigine della bellezza, nello struggimento del ricordo, nell’impotenza dell’addio. Eccole, le lettere d’amore. Eccole.

“Anche a letto i miei pensieri corrono a te, mia amata immortale, lieti talvolta, poi di nuovo tristi, in attesa di sapere se il destino ci esaudirà. Per affrontare la vita, io debbo vivere esclusivamente con te oppure non vederti mai. (…) Sii calma amami oggi, amami ieri; che struggente desiderio di te, di te, mia vita, mio tutto, addio, ti prego continua ad amarmi, non disconoscere mai il fedelissimo cuore del tuo amato.

Eternamente tuo

Eternamente mia

Eternamente uno dell’altro.”

Teplitz, 7 luglio 1812. Ludwig van Beethoven alla sua “amata immortale”.

 

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