Centro buddista Muni Gyana, il piccolo Tibet di Palermo


muni gyana

Sulle colline che circondano Mondello, da circa un anno si è sviluppata una realtà culturale di grande interesse, il centro buddista Muni Gyana (= grande saggezza), che ha sede in una villa di Pizzo Serra, ubicata in una posizione che domina tutta la città. Questo immobile fa parte dei beni sequestrati alla  mafia e consegnato al centro buddista Muni Gyana dal Comune di Palermo.

Si valuta che i buddisti in Italia, siano circa 50.000, più circa 10.000 che frequentano più o meno saltuariamente i centri buddisti ed ancora altri 10.000 di provenienza extracomunitaria.

 Il Centro buddista Muni Gyana, (riconosciuto dall’Unione Buddista Italiana), in rete con altre associazioni che operano sul territorio, con il progetto “Ponti sottili”, vuole essere un punto di riferimento culturale ed ambientale armonioso per confrontare le diverse tradizioni, oltre che ad una ricerca congiunta che indaghi sia la realtà che la mente, promuovendo il rispetto come principio fondamentale della convivenza.

Per questi motivi, utilizza i suoi locali per svolgere attività di gruppi di studio, meditazione, insegnamenti, conferenze, e dare vita ad attività sociali e culturali che siano di giovamento alla città.

Come ha affermato il Venerabile Lama Monlam, presente all’inaugurazione: “E’ importante crescere ed operare nel rispetto di tutti, siano essi animali, uomini o anime. Per questo il motivo fondate della nostra religione, sta nella non violenza”

Il Centro buddista Muni Gyana è stato fondato nel 1990,da Lama Thubten Zopa Rimpoce che è rimasto il direttore spirituale e persegue l’intento di promuovere lo studio e la pratica del Buddismo Tibetano Mahayana.

Avvicinarsi al buddismo significa seguire alcuni principi pratici come la compassione per tutte le forme di vita che soffrano in qualunque modo, e di conseguenza l’ attivarsi per portare loro sollievo, il rivolgersi con gentilezza quando si comunica con gli altri, come se si trattasse di una persona cara, avere quindi questo atteggiamento accogliente, che può essere definito “materno”. Condurre una vita virtuosa, che non provochi dolore appunto con le azioni, parole od anche intenzioni.

E’ evidente che chi avvicina in maniera più o meno radicale a questi principi, compie una rivoluzione interna, che sposta l’interesse dei propri pensieri ed azioni da sè e dal proprio vantaggio personale, ad un comportamento etico globale che coinvolge l’esistenza della persona e tutto ciò con cui viene a contatto, senza lo spauracchio di anatemi più o meno celesti, ma creando di fatto un alone di azioni positive che modificano le reazioni di chi ci sta intorno e quindi  dell’ambiente e delle persone coinvolte, portandole ad essere più riflessive e responsabili.

Va da sé che l’espansione di questo criterio di vita, nel territorio e nella nostra quotidianità, è di grande vantaggio sociale, dal momento che la realtà siciliana ed italiana registra picchi di brutalità e violenza raramente raggiunti in passato.

Si lamenta da più parti la mancanza di valori sia nelle questioni politiche che di vita comune, la proposta portata avanti dal Centro, segue la tradizione Mahayana, che si è affermata nelle regioni del Tibet e che ha assorbito la tradizione sciamanica Bon Po, autoctona tibetana. In questa scuola, si dà particolare enfasi alla figura del Bodhisattva che rappresenta il saggio che dedica la sua esistenza alla liberazione dalla sofferenza di tutti gli esseri senzienti.

La scuola Vajaryana, cui fa capo questo tipo di tradizione, è diffusa soprattutto in Tibet, ed è tristemente nota per gli avvenimenti sociali e politici che l’hanno coinvolta a causa dell’invasione cinese degli anni 1950 e ’60.

Entrare fisicamente in contatto con queste pratiche, è sicuramente una esperienza di grande impatto emotivo. Le bandiere di preghiera vengono stese davanti ad ogni ingresso. La sala di riunione (il Gompa) dove si svolge la meditazione o il commento dei testi, è tinteggiata di giallo e rosso (gli stessi colori delle vesti dei monaci), viene arredata con thanke appese ai muri, (cioè quelle pitture su stoffa che rappresentano i vari aspetti delle divinità),  con ruote del dharma che rappresentano il ciclo delle infinite rinascite.

Ogni oggetto ha una posizione ed una funzione precisa, quasi un riassunto di ciò che sono i princìpi fondamentali della dottrina. Uno scaffale regge le statuette di bronzo dorato che rappresentano i Buddha che si sono manifestati, le offerte colorate di burro e farina e la statuetta di Maytreya, il Buddha che  verrà, l’unico seduto su un trono.

E poi la cattedra, rivolta ai praticanti, da dove il lama prima di tenere la sua dissertazione, recita i mantra propiziatori con tono di voce estremamente grave. Ascoltare la lingua tibetana in questa dimensione di sacralità, sembra quasi avvolgere l’ascoltatore nel mormorìo di un fiume che porta lontano.

Rientrare nella dimensione consueta, fatta di rumori, chiacchiere, grida di ambulanti, a cui ormai siamo abituati, fa riflettere come sia prezioso quel silenzio che permette di riconnettersi con la propria interiorità e in definitiva, rispettare le proprie esigenze di pacificazione con se stessi e con quello che ci circonda.

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