Cloud Atlas, sublime confusione per chi ama il cinema


Chi ama il cinema impegnativo – o chi finge di amarlo – deve vedere Cloud Atlas. È un imperativo che pende in particolare sulle seguenti categorie: i dietrologi e dietologi, i capitalisti e gli anti-capitalisti, i credenti e miscredenti, gli omo e gli etero, i global e i no global, i creativi e i cretini (questi ultimi, però, è bene che se lo facciano spiegare con precisione). Il film è tratto dal romanzo “L’atlante delle nuvole” di David Mitchell, e ne rispecchia fedelmente l’architettura narrativa: vi sono sei segmenti annodati fra di essi, senza legame apparente alcuno.

Sarà tale “complessità” (nel senso etimologico del termine), o forse qualcos’altro di fuggevolmente intangibile, a dare allo spettatore la percezione che alla scrittura del film abbiano partecipato, oltreché i fratelli Wachowski e Tom Tykwer, anche Quentin Tarantino e Stefano Benni, vuoi per la virulenza sanguigna di parecchie scene (giugulari che esplodono, casse toraciche che implodono), vuoi per il surrealismo “lessicale” e cronologico di alcuni dei sei segmenti. Alla pluralità dei filoni è corrisposta, ovviamente, quella dei “messaggi”: ci sono le discriminazioni razziali (battaglia ormai inflazionata, raccontata denunciata in maniera nemmeno poi tanto originale), quelle omofobe (battaglia ormai più che inflazionata, raccontata e denunciata in maniera decisamente originale), ci sono le egemonie delle compagnie energetiche (battaglia ormai inflazionata, raccontata e denunciata in maniera geniale) e la ghettizzazione della società ai danni degli anziani (tematica di cui si parla poco, raccontata e denunciata in maniera amaramente ironica). Ci sono ancora i fondamentalismi religiosi contrapposti ai razionalismi estremi della scienza (fra i due, vincerà l’amore) e, dulcis in fundo, lo squallore dell’omologazione, del totalitarismo e della produzione massiva della carne per l’alimentazione umana: tematica, quest’ultima, di cui mai si parlerà abbastanza, per quanto nel film “il carnismo” e lo specismo siano demonizzati per bene. Tuttavia, risulta difficile credere alla valenza sociale di cotante allegorie: come per ogni testimonianza in controtendenza o pubblicità progresso, la sensibilizzazione posta in essere è a breve termine (finito il film, tutti da McDonald’s); è più facile apprezzarne quell’artistica, sebbene i volti in sala, a fine proiezione, erano quantomeno perplessi, e il commento più eloquente lo si deve al ventenne seduto al mio fianco: «Mi sa che durante la scrittura del film le dosi di crack abbondavano, sulle scrivanie degli sceneggiatori». Del resto si tratta degli stessi che hanno inventato la trilogia di “Matrix” – che al confronto, tuttavia, risulta complesso quanto “Tre metri sopra il cielo” –, del resto si tratta riprese effettuate separatamente e poi mischiate (così hanno concordato Tykwer e i fratelli Wachowski): rimbalzare da una storia all’altra, da un’epoca all’altra, confonde lo spettatore pur sorprendendolo (o meglio: sorprende lo spettatore pur confondendolo). Come in ogni grande opera, poi, la genialità risiede nei dettagli, o meglio, nei legami che si scorgono fra un filone narrativo e l’altro: la divinità venerata nel segmento relativo alla religione, ad esempio, è lo stesso soggetto che, nel segmento relativo all’omologazione, si ribella al sistema lasciandoci le penne; da qui, l’interrogativo: era lei semplicemente un’ “umana” più coraggiosa delle altre, o forse la sua “superiorità” – manifestatasi con la sovversione – è bastevole a decretarne la natura divina?  In conclusione, che ve lo dico a fare: sublime Tom Hanks, superbo Hugh Grant, strepitosa Halle Berry, ognuno nei suoi multi-ruoli. Da vedere e rivedere.

                                                                        

 

 

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