Se fosse un’opera teatrale sarebbe “Aspettando Godot” di Samuel Beckett, se fosse un quadro sarebbe “L’urlo” di Edvard Munch, se fosse un libro è “Buttanissima Sicilia” di Pietrangelo Buttafuoco. Un pamphlet d’effetto che offre l’immagine metaforica di un’isola che affoga nel mare del malaffare, nella «fogna» mafiosa dell’autonomia, asfissiata dagli scandali e dall’indifferenza, si accompagna ad un titolo disarmonico, reso ancor più doloroso dal superlativo che stride sul giallo di una copertina assolata. C’è la Sicilia del grottesco, dell’assurdo, del paradosso e del bluff dentro, ma c’è anche una terra che memore degli antichi fasti vuole riprendersi il vero superlativo che le spetta e tornare ad essere bellissima; stanca di essere trattata come «aranci di ‘nterra» e di recitare il solito copione che l’ha così «strafottuta», ora più che mai, urla a squarciagola «Adesso basta!»
Pietrangelo, una copertina gialla come il sole di Sicilia e un titolo forte, quasi ossimorico … dunque, è questo quello che è diventata “dandola” al potente, miglior offerente di turno?
«Sì, siamo diventati oppure siamo stati costretti a diventare per fronteggiare questa situazione, è un po’ come chi scoprendo di nutrire un grande, potente, totalizzante amore ne viene ricambiato con qualcosa che lo annulla, lo vanifica e lo sporca.»
Lei definisce l’Autonomia «Un privilegio di pochi, frutto dell’unica vera trattativa Stato-mafia, l’acqua che nutre l’arretratezza economica e sociale di un pezzo importante del Mediterraneo, una fogna, un mostro burocratico-politico con enti mangiasoldi», qualcuno potrebbe dire “hai voluto la bicicletta? … ora pedala”, ma dove andremo continuando a pedalare così?
«E’ un vicolo cieco, in punto formale non c’è soluzione di rinunciare all’Autonomia, però c’è un’occasione ghiotta, il momento in cui il Governo sta discutendo il titolo V della Costituzione, pertanto ho voluto concepire il libro in maniera così violenta e definitiva affinché Matteo Renzi si renda conto di una necessità, perché più che l’inutile abolizione delle province, ciò che è ancor più inutile sono le regioni, soprattutto le regioni a statuto speciale e a maggior ragione la Sicilia, che in questo statuto ha trovato l’alibi per tutti i suoi fallimenti, perché -dobbiamo dirlo- una cosa è l’autonomia in Trentino, una cosa in Sicilia.»
Scandali su scandali, cita un po’ tutte le malefatte del nostro governo e non sfugge neanche la formazione, uno slogan del tipo “Venghino signori venghino, trasformiamo i disoccupati in docenti e i docenti in disoccupati” andrebbe bene per quella che lei definisce una «giostra»?
«Sì perché purtroppo l’unica vera industria forte in Sicilia è quella dell’impiego pubblico, non esiste una realtà imprenditoriale, basterebbe vendere bellezza, cultura, storia, ma tutto questo non si fa …»
In una visione un po’ gattopardiana, mi sembra di avere percepito che era necessario che tutto cambiasse, perché tutto restasse com’era, è questo il «grande bluff» di cui parla?
«Il grande bluff si è incancrenito con l’attuale governo regionale che ha costruito l’alibi della propria incapacità su un parametro invincibile che è quello del “politicamente corretto” e che non consente nessuna discussione riguardo al suo operato, tanto è vero che il Governatore criminalizza il dissenso e presentandosi -così come vuole essere raccontato dalla leggenda- come il paladino del bene in assoluto, chiunque osi criticarlo si ritrova ad essere come minimo mafioso!»
E per non fare nomi, lei fa anche i cognomi … però mi sembra che se l’attuale Presidente viene citato spesso, in tutte le salse, e Totò ogni tanto compare, di colui che ha rappresentato la legislatura di mezzo lei faccia più un “Innominato” che non un “Mastro Don Gesualdo”, mi sbaglio?
«In effetti è così, perché come tipo umano resta ed è un Mastro Don Gesualdo, ma come individualità non lascerà traccia! E’ un personaggio paradigmatico perché all’inizio non corrispondeva al canone del politico siciliano, ma poi si è rivelato in una parabola sempre più macchinosa e complicata in formule e logiche di potere che hanno ribaltato totalmente quello che era stato costruito all’avvio della sua legislatura.»
Pif, che lei cita, ha parlato della mafia tramite gli occhi di un bambino, lei lo fa tramite l’ “antimafia”, quanto può essere fruttuosa questa «industria»?
«Io cerco di operare una distinzione precisa tra identità e retorica, la retorica ammazza l’economia siciliana, la fantasia, la creatività e non può che accontentare chi avendo bisogno di una parabola consolatoria si adagia su tutti gli escamotage della retorica stessa, ma la Sicilia ha bisogno di un’identità: L’esempio che ho fatto e che mi ha scatenato polemiche feroci, è quello dell’aeroporto di Comiso, se noi seguiamo l’identità e rispettiamo il territorio è giusto che l’ aeroporto venga intitolato a Gesualdo Bufalino, non tanto perché è di Comiso quanto perché quei millenni di storia intorno ai monti iblei si identificano in quella poesia e in quella storia, tanto è vero che l’aeroporto di Verona si chiama Catullo … se invece dobbiamo -ancora una volta- assecondare un istinto autoconsolatorio e definito in un contesto tragico e drammatico che necessita ben altre medicine che non quella di risolverla con la toponomastica, allora lo chiamiamo Pio La Torre!»
Un libro di certo violento, dissacrante e demolitore il suo, dal gusto forte e amaro, un superalcolico che ti stordisce, quello che non mi è chiaro è il retrogusto …, sa di speranza o no?
«Credo che oggi ci sia la necessità di prendere coscienza e consapevolezza dei fatti, abbiamo un riguardo nei confronti dei figli e del futuro, dobbiamo dirci una volta per tutte che è inimmaginabile che nel 2014 per raggiungere Catania da Palermo, non ci sia un treno, però si va alla stazione e si prenda non il treno, ma l’autobus che parte dalla piattaforma accanto al treno, un treno che non parte ed un autobus che stancamente si fa il viaggio da Palermo a Catania …»
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