Da vent’ anni la sua cucina e la sua ricerca s’identificano con il cous cous ma lei viene dal teatro. Qual è il legame?
“Il teatro ed il canto sono stati miei primi mestieri, perché comunicare è per me una prospettiva di vita, mi dedico ad accogliere il mio ospite a tavola, e come a teatro, la cena è sempre diversa, il rapporto con gli ospiti, quasi fossero spettatori, viene curato personalmente. C’ è chi entra con diffidenza e va conquistato con i piatti, con le storie e tutto quello che riesco a trasmettere. Ho iniziato un pò per gioco, di certo forte è stata l’ influenza del rapporto forte con il cibo nella mia famiglia, poi i viaggi e il desiderio di scoprire. Il teatro, negli anni 70 era un esperienza coinvolgente, le tournée, la convivialità forte tra noi attori. In molti mi seguivano nella mia casa di Macari, sulla meravigliosa baia di Castelluzzo. Lì ho capito che volevo dedicarmi al cibo”.
Quando entra il cous cous nella sua vita? Ha a che fare con la passione per la ricerca antropologica sulle tradizioni popolari?
“ Il Cous cous è per me come trasferire nero su bianco la tradizione orale di questo straordinario piatto. Una tradizione che si tramanda. Provare a definire un piatto come il cous cous? Un momento di creatività popolare, di trasformazione degli elementi più semplici offerti dalla terra e dal mare e pian piano trasformati in complessità. Ma il segreto è tutto nella semola, nella materia prima e in come viene incocciata, quanta acqua richiede e quanto lavoro manuale…. pazienza e sapienza. Un mistero, una magia come da questa grossolana farina sia scaturito pian piano l’insieme di sapori unici”.
Ha scritto che fare il cous cous è un rito della sua infanzia. Così Al Pocho la domenica si fa e si mangia solo cous cous… poi, ogni giorno cambia un menù…un lavoro enorme, come mai?
“E’ stato sempre così in casa, mi svegliavo la domenica e sentivo odore di cous cous con il primo vapore che usciva dalla couscousiera. Così la domenica si fa il laboratorio tutti insieme, il rito ritorna. Non può essere accostato ad altri piatti perché è un piatto unico, o con la carne, o con il pesce, dunque è un protagonista per un’intera cena. Nel menù della domenica ci sono 4 portate: cous cous di pesce, sorbetto, cous cous vegetariano speziato, al maiale e finocchietto, e per finire cous cous dolce con la salsa di arancia. Ma il rapporto con la materia prima è la chiave della riuscita del piatto, e la lentezza nel lavorarlo. Durante la settimana propongo piatti palermitani reinterpretati come il tonno a sfincione in terrina, o il macco di fave e finocchietto, le paste con il pesce fritto come era anche nelle case con dei pescatori la domenica.., un modo di industriarsi con quello che si ha. Oggi si dovrebbe ritornare ad una cucina senza sprechi con la filiera del territorio”.
Trapani è diventata la patria del Cous cous fest. Ma la qualità secondo lei è tutelata ? E i cous cous del Megreb che parentela hanno in realtà con quello trapanese?
“Il vero cous cous siciliano nasce da semola cruda incocciata a mano. E con la zuppa di pesce in rosso, mentre la tradizione familiare di fare il precotto essiccato e da farlo rinvenire con l’ acqua è tipico dei paesi africani, dei popoli nomadi. I siciliani hanno un rapporto con il cibo diverso, in Sicilia il cous cous è un piatto trionfale consumato fresco, fatto con farina di semola di grano duro, meglio se biologico, mischiata ad altre granaglie locali, come la tumminia. Adesso le grandi case vendono il cous cous pronto che può soddisfare alcune esigenze, ma è un’altra cosa. E’ una versione veloce, e con altri e minori elementi nutritivi. Il cous cous tradizionale ha sfamato intere generazioni, trasmettendo un suo rituale di preparazione che io cerco di recuperare. Le ultime edizioni del festival, secondo me, non hanno più garantito la qualità del piatto e non contribuiscono a promuovere la qualità del grano duro locale. A Castelvetrano ed in provincia di Palermo ci sono piccoli produttori con mulini a pietra che fanno un ottimo prodotto andrebbero coinvolti e immessi nel mercato”.
Cosa succede quando porta il cous cous nei consessi gourmet del nord Italia?
“Nelle mie degustazioni faccio sempre un laboratorio dove spiego cosa significa prepararlo. Al salone del Gusto o nei ristoranti stellati del Piemonte ho lavorato il cous cous per le serate a tema e laboratori. Si crea interesse ed emerge la verità sul cous cous, cibo sano che magari entra nelle abitudini alimentari dei più sospettosi. Si scopre un mondo nuovo attorno al piatto cosi comune nella tradizione dei popoli islamici in almeno dieci versioni tutte differenti, al di fuori degli stereotipi. Il cibo è un veicolo di messaggi, non deve fare paura, vanno sfatati pathos e finzioni. L’intenzione dello chef deve essere subito riconoscibile. In questi vent’anni ho girato e incontrato donne del popolo del Mediterraneo sfamando generazioni. Un lavoro silenzioso e pesantissimo di manualità e di conoscenza degli ingredienti locali. Ripeto nelle mie lezioni che la ghiotta di pesce per il cous cous alla trapanese è rossa, fatta con l’estratto di pomodoro. La zuppa in bianco, con il pesto di mandorla aglio e prezzemolo e limone invece non si faceva per il cous cous., ma era un piatto a parte. Questo significa raccogliere la tradizione popolare. Questo vorrei tramandare alle giovani donne che vogliono affacciarsi alla carriera: lavoro, pazienza e fedeltà alla tradizione”.
Nuovi progetti?
“Salvaguardia del cous cous trapanese all’antica, sto pensando alla chiave giusta per farne un veicolo di comunicazione per la rivalutazione del cibo del Mediterraneo. Collegandolo alla musica megrebina, alla cultura nomade, alla sua storia”.
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